Categoria: Approfondimenti, esempi applicativi e opportunità
Data: 10/10/2017
Definizione e composizione, tipologie e metodologie di risanamento
L'inquinamento atmosferico delle aree urbane è comunemente detto smog, parola derivante dall'accoppiamento di smoke (fumo) e fog (nebbia).
Si possono tuttavia distinguere due tipi di smog con caratteristiche differenti: essi sono chiamati, rispettivamente, smog classico e smog fotochimico.
Ossidi di azoto (NOx): trovano un alleato nell'acqua, che svolge una funzione fisica e chimica alterando le superfici e creando le visibili croste nere. Il maggiore responsabile dell’inquinamento antropico da ossidi di azoto è il traffico autoveicolare che rappresenta quasi il 50% della produzione globale ed in particolare per l’utilizzo dei motori diesel. Il biossido di azoto svolge un ruolo fondamentale nella formazione dello smog fotochimico, in quanto costituisce l’intermedio di base per la produzione di tutta una serie di inquinanti secondari molto pericolosi come l’ozono, l’acido nitrico, l’acido nitroso, gli alchilnitrati, i perossiacetilnitrati, ecc.
Il biossido di azoto svolge un ruolo fondamentale nella formazione dello smog fotochimico, in quanto costituisce l’intermedio di base per la produzione di tutta una serie di inquinanti secondari molto pericolosi come l’ozono, l’acido nitrico, l’acido nitroso, gli alchilnitrati, i perossiacetilnitrati, ecc.
Anidride carbonica (CO2): l'impatto di questo agente è spesso sottovalutato. Eppure l'anidride carbonica in grandi quantità ha pesanti effetti corrosivi. Infatti, l’anidride carbonica in presenza d’acqua reagisce con il carbonato di calcio (calcare) e forma l’acido carbonico (H2CO3), solubile in acqua, secondo la reazione:
CaCO3 + H2O + CO2 -> Ca(HCO3)
Quanto maggiore è la concentrazione di CO2 in soluzione, tanto maggiore è la formazione di bicarbonato solubile, mentre la diminuzione di CO2 porta alla ricristallizzazione del carbonato sulla superficie dei manufatti, inglobando il particolato di colore nero che, nel frattempo, si è depositato su di esso.
Ossidi di Zolfo (SOx): la combustione dei fossili (raffinerie) porta alla presenza di zolfo nell’atmosfera che reagisce con l’ossigeno e genera anidride solforosa (SO2). Questa sostanza, a contatto con altro ossigeno, diventa anidride solforica (SO3) che a contatto con l’acqua diventa acido solforico (H2SO4) secondo la reazione:
S + O2 -> SO2
2SO2 + O2 -> 2SO3
SO3 + H2O -> H2SO4
L’acido solforico così formato è altamente corrosivo e nel momento in cui si deposita su un materiale, non essendo una sostanza volatile, non viene eliminato dal vento. Agisce sui materiali come gesso, calcare, marmo ed arenaria creando la solfatazione dei carbonati di calcio, con conseguente dilavamento in presenza di piogge. Una fonte di inquinamento naturale da zolfo è lo spray marino (composti dello zolfo).
Particolato aero-disperso: il particolato viene emesso direttamente da impianti fissi di combustione, traffico motorizzato e sorgenti industriali, oppure indirettamente attraverso la condensazione di micro-gocce di gas inquinanti. Il particolato aero-disperso nel suo complesso viene definito Particolato Totale Sospeso (PTS), in particolare, si definisce PM10 l’insieme delle particelle con diametro aerodinamico inferiore a 10 micron e PM2,5 l’insieme delle particelle con diametro aerodinamico inferiore a 2,5 micron.
Trasportato da vento e pioggia, il particolato aero-disperso finisce per attaccare i monumenti e fa da catalizzatore per gli altri inquinanti. Infatti il deposito del particolato è la causa primaria dello sporcamento delle superfici dei manufatti causato dall’accumulo di particelle carboniose incombuste che provoca nel tempo alterazioni e corrosioni delle superfici. L’adesione superficiale è dovuta a rugosità, umidità e forze elettrostatiche.
Una qualsiasi superficie esterna di edifici siti in un ambiente urbano interessata da atmosfera inquinata è inevitabilmente destinata a ricoprirsi di depositi variamente coerenti e aderenti al supporto, costituiti da materiali che assumono colore dal grigio scuro al nero.
Col passare del tempo i materiali che si depositano sulle facciate tendono ad ispessirsi e indurirsi formando le cosiddette CROSTE NERE, che possono avere spessori variabile anche di notevole entità: da qualche millimetro a qualche centimetro!
L'ubicazione di questi depositi sulle superfici esposte è principalmente ristretta alle zone più riparate dalla pioggia battente e dal dilavamento che essa provoca, come sottotetti, sottosquadri d’ogni tipo, fregi e rosoni, zampe di grifone, statue, ecc.
Nella maggior parte dei casi e nelle situazioni più comuni, sottoposte a queste tipologie di problemi, queste croste nere si presentano come delle pellicole sottili (da 0,5 a 3 mm), uniformi, che ricoprono la pietra mantenendone la morfologia originale.
Nei sottosquadri e nelle zone del tutto protette, le croste nere assumono forme del tutto irregolari spesse fino al centimetro e oltre e ad esse, nel caso di materiali lapidei naturali, si associano fenomeni di degrado del materiale stesso, che si manifestano sotto forma di scagliature, esfoliazioni e rigonfiamenti.
Nel caso, invece, di manufatti costituenti facciate decorative, tipiche dell’Art Nouveau (Stile Liberty), realizzate con conglomerati artificiali (calcestruzzo prefabbricato e opportunamente modellato), le croste nere diventano un corpo unico con il manufatto, di durezza cristallina praticamente impossibile da eliminare se non mediante energica azione meccanica.
La crosta nera tende col tempo ad ispessirsi, ad indurirsi sempre di più e a divenire sempre meno porosa e impermeabile. Si accentua così la diversità di comportamento meccanico e termico tra essa e la pietra sottostante. Per esempio, la crosta essendo nera tende ad assorbire più della pietra le radiazioni solari, con conseguente maggior dilatazione.
La natura di queste croste nere dipende molto dall’ambiente in cui il manufatto si trova, ossia se esso è di tipo industriale, urbano, rurale o marino. In base a ciò si può quindi stabilire una prima classificazione delle particelle in funzione della loro origine:
Unica fonte di inquinamento naturale, relativa all’emissione di cloruri in atmosfera, che compete quantitativamente con le fonti artificiali fin qui descritte, è quello marino.
Nelle zone costiere, i cloruri emessi dagli aerosols marini risultano infatti anche superiori a quelle emessi da fonti di inquinamento artificiale. Essi partecipano all’azione corrosiva dei materiali lapidei creando la superficie ideale per la deposizione e l’ancoraggio delle polveri alle facciate degli edifici.
Le componenti principali delle croste nere in ambiente marino, sono i materiali carboniosi provenienti da processi di combustione, polveri da suolo, ossalati di calcio, solfati di calcio, nitrati di potassio e cloruri di sodio. Tali croste formate da deposizioni successive, potrebbero non aderire direttamente al supporto ma trovarsi su uno strato di alterazione di gesso o calcite microcristallina.
Pulitura combinata (prelavaggio chimico e specifica pulitura meccanica):
Le impurità superficiali (macchie scure, dilavamenti e croste nere), così come sopra ampiamente descritto e illustrato, possono essere di forma, natura e aggressività diversa, caso per caso.
Una volta che il prodotto emolliente applicato sulla superficie da pulire, avrà indebolito chimicamente l’incrostazione, si potrà procedere con un’azione di tipo meccanico, in modo da distaccare completamente l’incrostazione, terminando a completamento, con un intervento di protezione definitiva della pietra pulita.
Il metodo meno invasivo, che garantisce il miglior risultato possibile, è il sistema di pulizia meccanica controllato a base di polveri abrasive. Questa tecnica impiega apparecchiature ad aria compressa piuttosto sofisticate ed abrasivi particolari, di differente natura, ivi comprese polvere di allumina, silice, microsfere di vetro, polveri vegetali, ecc., di dimensioni inferiori ai 40 micron, con granuli di forma il più possibile sferica. Gli abrasivi, dispersi in ridottissime quantità d’acqua (50/60 litri/ora), sono spruzzati con particolari ugelli in grado di proiettare le particelle abrasive con moto circolare ed incidenza diagonale (sistema elicoidale), consentendo pulizie meno impattanti per strofinio. Pur comportando tempi di esecuzione non rapidissimi, i sistemi a base di polveri abrasive consentono di intervenire anche su superfici degradate senza rischi concreti di danneggiamento. Esistono differenti ugelli per diverse superfici. Gli operatori devono essere adeguatamente protetti dalla possibile inalazione dei granulati (uso di maschere) e dall’effetto acustico (cuffie).
Questo sistema può anche essere utilizzato con acqua deionizzata, assicurando in tal modo una migliore efficienza, poiché la superficie da pulire viene in contatto con acqua priva di ioni, e perciò con una più elevata azione solvente. Lo stesso sistema può essere utilizzato con gli stessi risultati senza l’uso di acqua. Anche in questo caso la pulitura rimane graduabile, selettiva e perfettamente controllabile, quindi applicabile a qualsiasi tipo di pietra, anche alle più deteriorate, previo ricostruzione e consolidamento delle parti danneggiate.
Prima della procedura di pulitura, infatti, si dovrà procedere al pre-consolidamento, cioè al ristabilimento della coesione delle superfici maggiormente degradate, mediante impregnazione di resina consolidante acril-siliconica, per mezzo di pennelli, oppure alla iniezione di resine epossidiche all’interno di eventuali fessure mediante specifiche siringhe. Dovrà essere effettuato il fissaggio di piccoli frammenti in via di distacco o già staccati mediante l’utilizzo di malte idrauliche e/o resinose. Nei casi di maggiore gravità l’operazione di ricostruzione della porzione mancante avverrà, dopo previa pulitura delle due superfici di contatto, mediante applicazione di specifiche malte colabili o tixotropiche, con eventuale inserimento di perni di acciaio inoxidabile, in vetroresina o in carbonio fissati al supporto con resina poliestere.
Prima della pulitura, si procederà anche, alla disinfezione biologica, mediante applicazione a spruzzo o pennello di biocidi a largo spettro d’azione, la procedura sarà conclusa con abbondanti lavaggi con acqua e spazzole in setole morbide per eliminare eventuali residui di prodotto. Arrivati a questo punto, si può procedere alla pulitura, come sopra descritta, a sistema aereo-veicolato a pressione variabile usato con una gamma di granulati neutri finissimi di varia granulometria. L’elemento lapideo potrà poi essere consolidato con un prodotto molto fluido e costituito da sostanze aventi molecola corta per garantire una buona penetrazione, fino all’ancoraggio con il nucleo sano sottostante. Il prodotto dovrà rispondere inoltre a buoni requisiti di esistenza e traspirabilità al vapore acqueo.
Tinteggiatura con pitture fotocatalitiche
Il principio attivo fondamentale di queste particolari eco-pitture è quello della fotocatalisi. La fotocatalisi è un fenomeno naturale in cui una sostanza, detta fotocatalizzatore modifica la velocità di una reazione chimica attraverso l’azione della luce, sfruttando l’energia luminosa.
I fotocatalizzatori inducono la formazione di reagenti fortemente ossidanti che sono in grado di decomporre per ossidazione alcune sostanze organiche e inorganiche presenti nell’aria come il biossido di azoto, biossido di zolfo, monossido di carbonio, benzene, ammoniaca, formaldeide, particolato atmosferico PM10, derivanti dagli scarichi delle auto, dalle emissioni delle fabbriche, dal riscaldamento domestico e li trasforma in sostanze inerti e del tutto innocue.
Ciò vuol dire evitare il depositarsi di sporco, muffe e batteri che degradano l’aspetto di case ed edifici oltre che la salute umana.
Viste le caratteristiche di idrorepellenza, traspirabilità e incorruttibilità sotto l’azione disgregante e corrosiva degli acidi, questi tipi di vernice sono ideali per il ripristino delle facciate degli edifici ma anche per le nuove costruzioni.
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Michele Gadioli
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